domenica 23 dicembre 2012 8 commenti

Stavo pensando...

...che nonostante tutto vivere alla giornata, specialmente quando va bene, non è poi così male. Volgere lo sguardo al futuro non è sempre conveniente e macchiare di dubbi il candido bucato del "qui ed ora" prepara ai fallimenti anziché scongiurarli. Stavo pensando che i ristoranti e le pizzerie non sono i metri di giudizio adatti a misurare l'entità della crisi economica. Non lo sono nemmeno le auto in circolazione o i centri commerciali affollati. E sono veramente stufo, stufo marcio di discutere con coloro che, semplicemente non trovando parcheggio al supermercato, si chiedono dove sia la crisi. Ve la spiegherò io, una volta per tutte, dov'è e come riconoscerla.
Essendo un argomento abbastanza delicato, non mi permetto assolutamente di coinvolgere nella mia trattazione i ceti che rasentano o vivono nella soglia della povertà. La crisi di cui posso essere testimone, e di questo ringrazio il destino, è quella più subdola, che direttamente non è importante, ma che indirettamente può essere la causa di reazioni a catena senza fine. 
Prima d'ora non avevo mai avuto modo di gestire in maniera autonoma le mie finanze. Credo di dover ancora una volta ringraziare il destino, ma papà e mamma hanno sempre (e continuano) a vegliare sul mio sostentamento economico. Adesso la mia personalissima fonte di reddito mi permette di essere un soggetto in prima persona coinvolto nel movimento di denaro. Me ne sono accorto dalle piccole cose e, automaticamente, me ne rattristo di come certe fortune non siano estese e non riguardino ogni singolo abitante del globo. Adesso, per farvi un esempio banale, compro il giornale 3 o 4 volte a settimana piuttosto che leggerlo su internet; perché mi tolgo lo sfizio del cartaceo, perché mi rilassa di più; se non ci fosse la crisi la gente non risparmierebbe sui giornali, ne comprerebbe di più, se ne stamperebbero di più, il settore non sarebbe subito saturo di lavoratori se la domanda di nuovo crescesse stimolando l'offerta. Questa logica suppongo sia applicabile a qualsiasi settore produttivo. Adesso ho anche comprato dei regalini di Natale. I miei primi, regali, guadagnati. Finalmente quando chi li riceverà mi dirà "grazie", io potrò rispondere "prego". Perché prima non potevo rispondere "prego" se il frutto di quel regalo non era dato dal mio lavoro ma dal lavoro di qualcun altro. Il lavoro. Lavorare. Il lavoro. Lavoro. Sto comprando anch'io ora, per i fatti miei. Il lavoro mi permette di richiedere qualcosa in più, spendo, io chiedo, il mercato mi offre. Se nessuno chiede, il mercato non offre, il mercato è il lavoro, il lavoro è la gente. Domanda ed offerta, domanda ed offerta, domanda ed offerta. Lavoro. Il ruolo del denaro resta, ma è pur sempre marginale. Vi sembrerà un paradosso, per me non lo è. Il denaro è sempre relativo. Il denaro acquista importanza a parità di lavoro svolto. 
Il denaro, invece, diventa un'arma viscida, malsana e portatrice di malattie endemiche quando non ha la nobiltà del lavoro alle spalle. Io so cosa mi è costato il denaro che ho in tasca. Chiunque conosce il valore reale delle monete che ha in tasca. Il valore reale dell'euro, dello yen, del dollaro o di qualsiasi altra valuta è il lavoro. E tratterò con rispetto il mio denaro, con lo stesso rispetto con cui tratto me stesso quando lo lavoro, quel denaro. E lo trasformerò in beni di consumo, apprezzando non la cosa che compro, ma la fatica che mi ha permesso di guadagnarmela. Spendendo con piacere e soddisfazione. Il denaro è il valore di scambio materiale con cui, tramite il valore reale chiamato lavoro, ricompenso l'anima per le mie fatiche. Anche il lavoro, se non svolto con passione, rischia di non mantenersi puro, ma questo è un altro discorso. Lavoro, spendo, l'economia (quella buona) gira. Mi sto accorgendo delle piccole cose con le quali tutti, nel nostro microcosmo, permettiamo all'economia di girare e alla domanda di far salire l'offerta. Se però il denaro non viene lavorato, se alla moneta non corrisponde la fatica, l'economia si sporca, macchiandosi di coloro che non rispettano il denaro, che se lo scopano e che lo prostituiscono. Questa gente andrebbe impalata e frustata fino alla morte, perché non c'è peggior male che quello del dio denaro che rende ciechi e soddisfa i piaceri non curandosi di lavoro e fatica. Infatti, non conoscendo il valore del sudore prima ancora del valore della moneta, sperperano senza senno. 
Ovviamente, poi, ogni lavoro può avere differenti livelli di retribuzione, ma sempre a parità di fatica. E' anche per questo motivo che chiunque dovrebbe guadagnare mensilmente più di Renzo Bossi, ma questa è demagogia... (?)
Sì, in questi giorni stavo pensando a tutte queste cose. Scusate se pasticcio così il mio post, ma oltre alla crisi stavo anche pensando alle belle persone che ho conosciuto qui a Modena. Molti di voi non capiranno nulla, ma i diretti interessati sì, ed è questo che mi preme più d'ogni altra cosa. Stavo pensando all'amico Claudio e alla collaborazione (di pensiero e di lavoro) che è nata.
Stavo pensando all'amico Enrico, fratello maggiore e compagno d'allenamento.
Stavo pensando all'amica Ana, di rara sensibilità e attenta al mondo che la circonda.
Stavo pensando all'amica Monia, energia pura.
Stavo pensando all'amico Alberto, uomo di grande cuore.
Stavo pensando all'amica Teta, schiettezza fatta persona, capace di rendere digeribili anche le sincerità più scomode.
Stavo pensando all'amico Tony, uragano dell'est, quante risate.
Stavo pensando all'amico Luigi, capo disponibile ed in gamba.
E poi stavo pensando agli altri: Valerio, Alessio, Dario, Daniele, Deborah, Paolo, e quanti ancora... Stavo pensando ai miei amici, quelli di sempre, quelli che ancora mi aspettano e che, nonostante io sia partito, mi vengono dietro con l'anima... Stavo pensando ai colleghi blogger, a Sileno, a Zia, ad Arte, ad Andrea di "Dice che...", ad Alberto di "qui ed ora...", a Lara di "Estate incantata", a TuristaDiMestiere, e a tutti gli altri che se non cito è solamente colpa della mia fallace memoria... Vi appenderò tutti al mio albero di Natale quest'anno, ma concedetemi di lasciare il puntale, il ramo più alto alla mia famiglia. Ultimamente, però, ho fatto spazio lassù anche a te, sai? Sì, proprio a te che adesso mi dormi accanto...
Buon Natale e felice anno nuovo a voi...
lunedì 17 dicembre 2012 3 commenti

17 dicembre 2012

Il freddo del Natale scalda le anime gelide d'inverno. Luci e addobbi. Nonostante i miei pastorelli quest'anno siano lontani me li immagino sempre al solito posto. Guanti, sciarpe e cappellini di lana. Cappotti, stivaletti e risate di genuino tepore. Musica dal vivo e note jazz, sorseggiando cioccolate calde e sogni. Dimmi quanto ti devo, perché non può essere tutto gratis. Quanto ti devo per questa improvvisa, sparsa ed imprevedibile felicità? Sarà salato il conto da pagare, perché quando scoccherà l'ora ancor più tristi diverranno i giorni in cui avrò nostalgia di questi dolci momenti. Mi manca il rapporto con la terra e la potatura. Differenziami. Sto diventando di plastica, prima ero organico. Ho come la triste impressione che i miei comportamenti non siano altro che banalissimi sbalzi ormonali, mentre la scienza chiama endorfina la mia felicità e cortisolo la mia frustrazione. Lasciami ancora sniffare il Natale. Sono proprio fortunato. Sono così fortunato che mi sento a disagio. Non mi accontento d'essere stato dolcemente carezzato dal destino. Che subdolo intreccio di favorevoli eventi. Non sto percorrendo strada alcuna, mi hanno preso per mano e mi accompagnano. Ma davvero me lo merito? La mia passione sopravvive e mi (ap)paga, ride della crisi e non si piega al turbine vuoto di chi si è (dis)adattato. Mi mancano le più insignificanti cose che hanno reso i miei affetti tanto grandi. Sono basso e felice. Se fossi stato alto avrei avuto una visione diversa del mondo. Se sei piccolo non scorgi i grandi problemi, ma ti alteri per nulla. Se sei grande, piccoli tarli corrodono la tua tranquillità, ma affronti a viso aperto le possenti avversità della vita. Tutti alla ricerca della felicità. Poi sono così ciechi da non frenare l'attimo in cui ce l'hanno di fronte. Io l'ho trovata tante volte: sorseggiando un caffè; cantando sotto la doccia; guardando la neve lasciarsi cullare dal vento scendendo pacifica sull'asfalto dove tutto corre veloce; sotto le coperte mentre fuori il mondo freddo imperversa; arrivando in tempo al gabinetto prima di farmela sotto; arrotolando l'ultimo quadratino di carta igienica riuscendo a pulirmi il didietro; trovando il petto di pollo in offerta a €4,99/kg. Vuoi forse cercarla altrove sta maledetta felicità? Viene e non te ne accorgi. La bestemmi e si allontana. Ma come credi di raggiungerla se non tribolando? Prima di conoscerla basta tastare l'esatto contrario per distinguerne le fattezze quando dell'attimo dirai "è bello", dopo averlo visto brutto. Lasciami sniffare altro Natale. Io arrivo in anticipo e devo aspettare il treno in ritardo. Arrivo in ritardo e il treno non m'aspetta. Ma stavolta ho dato una testata al destino e ancora non me ne capacito.
mercoledì 28 novembre 2012 8 commenti

L'esperienza, il caso e la fortuna

Suppongo che tutti conosciate le chiocciole. Non quelle che utilizzate negli indirizzi di posta elettronica, s'intende. Parlo delle chiocciole bavose che escono fuori con la pioggia, viscide e cornute per natura. A me piacciono un sacco bollite, con una spruzzata di salsa fatta in casa e un paio di cipollette. Ricordo che da bambino, poco prima che l'acqua nel pentolone iniziasse a bollire, mi divertivo a sceglierne un paio e a salvarle da una morte certa, lenta e dolorosa. Non credo si trattasse di una buona azione dato che poco dopo ne avrei mangiate un centinaio, ma mi stuzzicava l'idea di poter giocare con il loro destino. Per coloro che ci credono, nel destino, è triste dover leggere una frase simile. Per me che in fondo non ci credo non lo è. Forse tempo fa sceglievo gli "eletti" con il gusto della burla proprio dei fanciulli. Mi è capitato, ultimamente, di rifarlo. Non con la superficialità innocente e benedetta della tenera età, ma con la consapevolezza e le riflessioni del triste realismo. Guardale le altre, mi sono detto, guardale come il caso volle che finissero in pentola. E guarda queste due, invece, salvate dalle mie mani che hanno operato e scelto per la loro vita. Quelle chiocciole avrebbero forse potuto giurare che il destino fossi io. Dio, sono io.
Qualche giorno fa leggendo il quotidiano ho amaramente sorriso da solo guardando questa foto:


Pensavo che i miei infantili giochi col destino fossero casi isolati d'instabilità mentale. Non sapevo infatti, perdonate la mia ignoranza, che in America, durante la vigilia del Giorno del Ringraziamento, il Presidente sia solito salvare dal barbecue un grasso tacchino. L'eletto ce l'hanno pure loro.
Suppongo che la nostra, quella mia e di Obama, sia la più palese metafora della vita. C'è a chi va bene e a chi no. Il destino non è scritto, nessuno mai lo scriverà ed è modificabile. Caso, fortuna ed esperienza sono le uniche variabili utilizzabili per rendere malleabile il nostro futuro nel presente.
Caso e fortuna lavorano insieme e sono le sole a non essere direttamente o istantaneamente influenzate dalle nostre scelte. Sono, per intenderci, gli elementi che hanno permesso ai tacchini di Obama e alle mie chiocciole di non essere un secondo piatto. Non sono loro ad aver scelto che la mia mano li guidasse alla salvezza (anche perché altrimenti avrebbero scelto di salvarsi tutte quante e in natura, per mantenere gli equilibri, qualcuno deve pur morire). Ma non è nemmeno possibile parlare di destino perché io, ve lo assicuro ma lo sapete, non sono il destino e non ho agito per mano del destino. E' il caso (la mia scelta) fortunato (perché opera per il bene e non per il male, altrimenti diverrebbe sfortunato, ovviamente). 
A tacchini e chiocciole manca la variabile che più di ogni altra cosa rende il nostro domani conoscibile e, come tale, direttamente modificabile. L'unica cosa che può permetterci d'evitare i nostri insuccessi volgendo la vita a nostro favore è l'esperienza. Se le chiocciole avessero imparato a anticipare le nostre mosse, dopo una lunga giornata di pioggia probabilmente deciderebbero di non uscire allo scoperto in maniera così prevedibile. L'esperienza è palese e visibile in tutte quelle forme di vita che nel corso degli anni, per selezione naturale o per evoluzione, si sono adattate alle condizioni che la sopravvivenza gli imponeva. Caso e fortuna, poi, ne hanno fatto fuori alcune e ne hanno salvate altre, ma è chiaro che parliamo di chances differenti di farcela o meno.
Quelle chiocciole le ho mangiate. Le altre due probabilmente sono morte di vecchiaia e hanno raccontato ai propri nipoti di stare lontani dai lumi a gas durante le notti di pioggia.
Ora: vuoi stare ad aspettare che caso e fortuna facciano la differenza o è ora di costruirsi un futuro con senno ed esperienza?
mercoledì 14 novembre 2012 0 commenti

Mal di stomaco

Era destino, dicono. Come se avessero già letto quel libro e ne conoscessero il finale. Una serie di (s)fortunati eventi, altre vite s'intrecciano e nuove esperienze si palesano alla monotonia del quotidiano. (Stra) è sempre ordinario. Tutto cambia perché tutto resti com'è. Tapis roulant, corri a perdifiato ma non vai da nessuna parte. Partenza e arrivo coincidono. Agli orologi non importa nulla, loro vanno avanti lo stesso. E' tragicomico che l'unica cosa che sia soggetta al cambiamento, il tempo, sia anche inconoscibile. Muta e dispone, muta e dispone, in silenzio, cresce, invecchia, muore, tic, tac, tic, tac, tic, tac, mentre sfugge di mano. Non riesco a capire come faccia ad essere sempre troppo tardi. Era destino. Sbalzato di qua, vieni di la'. Sempre due occhi, un naso ed una bocca. Due occhi, un naso ed una bocca. Due occhi un naso ed una bocca. Basta. Ho deciso. Aereo, valigie, affitto. Piacere di conoscerti. Sei nuovo? Benvenuto. L'importante è viverci sopra. Ah, prima di iniziare a lavorare, ricorda che quelle non sono persone, ma banconote... banconote... banconote. Devi attrarre i clienti, sorrisi di facciata, dagli ciò che vogliono nei limiti di ciò che vogliamo noi. Ricorda che quelle non sono persone, ma banconote. Le leggi di mercato, dobbiamo mangiare pure noi, anche noi vogliamo la nostra fetta, stai facendo più del dovuto, stai al tuo posto, per quel servizio si paga, portami clienti, biglietti da visita, lui è il gatto ed io la volpe, siamo in società, di noi ti puoi fidar. Mi gioco l'etica, l'abitudine, il carattere, il comportamento. Sta' zitto e osserva, mani in tasca. Ricorda che quelle non sono persone, ma banconote. Ricordati della nostra fetta. Se ti chiedono una mano, non dargliela, non ti compete. Non si è mai abbastanza svegli per alzarsi dal letto e si è sempre stanchi abbastanza da poter dormire ancora un po'. Ma io voglio andare fino in fondo, a qualsiasi costo. Ma l'etica? E la morale? Lasciali riposare. Occhi in cielo e capelli d'oro, occhi in cielo e capelli d'oro, occhi in cielo e capelli d'oro, due volte al giorno, una la mattina non appena ti svegli e un'altra la sera prima d'andare a letto, occhi in cielo e capelli d'oro, occhi in cielo e capelli d'oro. La cura. Amici e famiglia lontani, di certo non dal cuore. Si viene e si va. Stavolta ho assecondato il corso delle cose. Era destino. E dove l'hai letto? Sul giornale, in prima pagina, vedi? Posso condonarti un'alluvione? Dicono che in inverno piova e che in estate faccia caldo. Ho sentito dire che in primavera gli uccelletti amoreggino. E' di nuovo tardi. E' sempre tardi. Arriveremo puntuali al capolinea, dopo esserci immaginati sempre in ritardo. Mi mancavi, Sturamente. Ti sto vomitando in faccia quasi un mese di silenzi. Come ho fatto a resistere? Quasi mi viene da piangere. Ti sto vomitando in faccia stomaco, intestino, bile, fegato e incertezze. Sturamente. Mi stanno piantando un chiodo in gola. Sto aspettando che la felicità mi presenti il conto da pagare, altrimenti non potrei accorgermi di lei. Scusami, ho fatto confusione. Volevo solamente tornare a scrivere...
venerdì 26 ottobre 2012 9 commenti

La Puttana

C'è una Puttana che apre le gambe una volta ogni 5 anni. Raramente accade che possa concedersi prima della scadenza del lustro, tuttavia ciò non è da escludere. Di recente, infatti, a causa delle evidenti vessazioni del suo ultimo pretendente, la sua dote chiede d'essere penetrata da un altro amante da strapazzo. Questa Puttana si fa chiamare Sicilia e da anni, da millenni, presta la sua prosperosa e fertile natura ai viandanti che la ammaliano con la retorica delle promesse e delle speranze. 
Nonostante la sua storia d'amore con Toto' sia finita in maniera tragica, dopo che lei tanto amore e tanta passione gli dedicò prestandosi anima e corpo alle voglie della di lui fantasia, Sicilia, prostituta di professione, non si tirò indietro nemmeno quando gli propinarono Raffaele. Nonostante fosse ancora sfondata, decise di abbandonarsi a questa sua nuova passione, fiduciosa che finalmente avrebbe concluso il lustro. Macché. Niente, neanche stavolta. Così fan tutti. Passano, se ne innamorano, lei, invaghita, ci casca e sono di nuovo lacrime e sangue. La girano, la rigirano, da dietro, sopra, sotto, davanti, di lato, a luci spente. Lei lo piglia, da brava professionista, ma agli ingrati clienti mai presenta il conto. Anzi, molte volte è lei stessa a doverci rimettere di tasca propria. Alcuni ringraziano e scappano via col bottino di piacere; altri restano e preparano il talamo nuziale per le prossime nozze. 
Anche stavolta sono arrivate in anticipo. Il 28 ottobre, tramite voti di scambio e favori, i figli da lei partoriti decideranno quale nuovo marito affibbiarle. Magicamente tornano a librarsi nell'aria gli odori della propaganda e delle promesse, una lista nozze lunga mille miglia fatta di tagli alle spese, tagli ai costi della politica, corretta gestione dei rifiuti, lavoro per tutti, turismo, prosperità, lasagne e cannelloni di ricotta. Tutti in nome del Puttanone, tutti in nome di Sicilia, affinché le sue cosce si aprano nella direzione giusta. Sono i soliti, vecchi e stereotipati volti delle promesse con la bugia stampata in fronte. Ma lei, Sicilia, si lascia sempre raggirare. "Posso cambiare" le dicono. "Dammi un'altra possibilità" le implorano. E lei, ingenua, abbocca, ancora una volta, donando il suo piacere. 
Da anni, come se non bastasse, molti dei suoi occasionali clienti le chiedono di prenderlo senza contraccettivi. Ne conseguono parti dolorosi che danno alla luce creature spaventose macchiate di vizi e immoralità. Ma cosa può farci lei, Sicilia. Sono pur sempre carne della sua carne e con pazienza li accudisce, crescendoli spietati e malvagi, correndo pure il rischio d'essere stuprata dalla sua stessa prole avvezza agli incesti familiari. 
Ma questo è il suo duro destino. La storia la volle Puttana, Puttana per sempre, e ancora tante volte le sue cosce s'apriranno, volgendosi alle ombre del primo membro che la violerà. Lei, bella e maledetta, lo prenderà, in silenzio, facendo buon viso a cattivo gioco. Ma quanto desidera, Sicilia, che il mare la porti via...
venerdì 19 ottobre 2012 6 commenti

Panta rei

Tirate buoi il vostro carro,
il tempo un unico solco
traccerà sulla terra
inconsapevole.

Inutile voltarsi
ma guarda e passa,
triste gioia rimembra
ciò che visse.

Di ricordi si nutrirà
un campo reso fertile
dall'esperienza del momento
che sfugge, inesorabile.

E l'istante dalla morte fugace
afferrerà in vita
quanto concepirà lo sguardo,
causa del passato.

Perché le acque del fiume
che scorrono pazienti
una ed una sola volta
accarezzano la via.

giovedì 4 ottobre 2012 12 commenti

Convivium

Case umili e basse, essenziali nello svolgere la loro modesta funzione di dimora. La notte stanca ed assopita s'adagiava fra i vicoli e i contorni della città tingendo di nero pece uomini e cose. Un'unghia di luna timida nel cielo sereno litigava con le stelle, ma la sua luce immatura e fioca rendeva impari la contesa, rimandandola a tempi migliori di plenilunio.
Fra le bastevoli sembianze delle abitazioni, un'imponente palazzo si stagliava alto oltre il sopore  della gente comune. La luce che spirava dalle finestre rompeva la quiete del buio contribuendo allo strano senso d'alienazione proprio di quell'edificio. Al suo interno, fra le grasse risate dei vizi, un pugno d'amici intorno ad una tavola imbandita si lasciavano andare alle frivolezze e ai piaceri della vita.
Un'ampia stanza, ben arredata e dal gusto barocco con volte ricamate d'estro creativo e mobili pregiati, accoglieva al suo interno un lungo tavolo sopra il quale ogni sorta di pietanza era prima un trionfo per gli occhi e poi una consacrazione per la gola: polli arrosto fumanti e profumati di spezie, costine di maiale in crosta di pistacchio, salse e sughi d'ogni tipo, polpettone prosciutto, mozzarella e piselli, strozzapreti affogati in crema di scampi, tagliatelle all'uovo con zucchine e gamberetti freschi, ostriche, astici, impepate di cozze, patate al forno dorate come pepite, champagne e vino rosso, rigorosamente servito da grosse anfore di ceramica.
Tutti quanti i commensali s'ingozzavano allegri e felici, mentre i loro sensi venivano eccitati dalle delicate carezze delle loro concubine. Un elemento bizzarro, giustificabile, accomunava tutti i partecipanti, concubine comprese. Erano tremendamente grassi. Grassi a dismisura, il collo incassato fra le spalle, il mento arrotolato su di sé, il ventre estremamente rigonfio e flaccido, indistinguibili i seni fra uomini e donne, le cosce rotonde straripanti dalle sedie come argilla molle, le dita tozze, simili a salsicciotti, afferravano avide il cibo in tavola infilandosi poi nelle boccucce bavose dalle quali tracimava di tanto in tanto qualche brandello di carne o pesce. Simili a grugniti le loro risate s'alzavano alte, sempre più soddisfatte, interrotte solamente dal tonfo sordo di alcune sedie che s'abbandonavano al peso di quella mole informe e viziata. Alcuni di loro, agli angoli della stanza, si spingevano oltre e univano in impasti raccapriccianti i propri sessi con quelli delle concubine. Sporchi di cibo, sudati e impuzzolentiti dal peccato rancido dei loro piaceri, se ne stavano lì, ridendo, mangiando, bevendo, rotolandosi per terra come porci sul vino che dalle anfore, per l'euforia, traboccava via.
Quelli fra loro che non s'erano ancora denudati, portavano scomposti giacca e cravatta. I segnaposto sul tavolo rivelavano i nomi dei commensali: Sicilia a capotavola, a destra Calabria, poco più avanti Campania, ancora dopo Lazio, a seguire Emilia, Veneto, Lombardia e tanti altri. Sicilia, Lombardia e Lazio, i più gravidi di vizio, erano stati i primi a cadere rovinosamente per terra poiché le loro sedie, ormai stanche, non ressero alle vessazioni di quella imponente mole.
Anche le altre sedie cigolavano minacciosamente, aspettando solo il momento propizio per andare in pezzi. 
Le grasse risate in ogni caso non cessavano e corsero nel vento della notte. 
Odiose e rivoltanti sfondavano le porte delle abitazioni limitrofe, disturbando la quiete degli umili cittadini. Usciti controvoglia dal sonno, uomini e donne aprivano lentamente gli occhi...
domenica 23 settembre 2012 6 commenti

Arrustuta di pipi

Autunno e primavera hanno raggiunto un accordo. Per il momento non c'è dato sapere nulla, se non che gli ultimi sgoccioli di settembre placidi si riempiono del sole d'aprile. Ottobre, novembre, dicembre. Gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto. Settembre, ottobre, novembre, dicembre. Vuoi darti una mossa? Si è già fatto tardi. Niente alcool. Spero che basti per una brace decente. Una borsa piena di peperoni, noie, coscienze e cianfrusaglie. Il terrazzino e l'orizzonte, il cielo terso e un caldo camuffato. Prendi il carbone, ma no, cosa diavolo fai, sono peperoni, non devi arrostire un cavallo. Ne hai messo troppo, e sta' un po' zitto! Guarda quel pezzetto, è troppo grosso, fallo a pezzi. Magari ti faccio arrabbiare un po', così non fallirai il colpo. Ecco, carbone ovunque, raccoglilo. Aspetta, lascialo per terra, poi gli daremo una scopata. No, dai, rischio di camminarci sopra, pestarlo e sporcare tutto quanto. Ok, raccoglili, poi però non lamentarti se t'annoio. Cospargi d'inferno i cadaveri di quegli alberi già passati a miglior vita. La morte veste nero. L'accendino ce l'hai in tasca. S'infiamma tutto in un attimo, come la passione che divampa o l'ira funesta che uccide. Ecco, l'alcool è finito. Quando ne avevi in abbondanza, ti sei divertito a renderti la vita facile, adesso, invece, devi centellinare le tue risorse. Guarda, brucia lo stesso, basta soffiare un po' di più. Con il superfluo sperperi e nella miseria ti accontenti. 
Metto i peperoni sopra? No, aspetta, non è ancora abbastanza caldo. Puoi telefonarle nel frattempo. Dici? La chiamo? Sì, chiamala. Ok. Ce l'ha spento. E' successo qualcosa. Smettila. E' impegnata. Starà studiando. Che ne sai? Piantala.
Ok. Credo vada bene adesso. Prendi i peperoni. Vedi di fargliene entrare il più possibile, no, quell'altro spostalo, giralo e mettilo accanto a quello più grassottello, ecco, va bene. Non avere fretta, non ci vanno tutti quanti, li arrostirai in due tempi. Soffia. Guarda come bruciano. Quell'altro, guarda quello lì come si gonfia, avido d'inferno, fra poco scoppia. Infatti. Lo dicevo io. In alto a sinistra, giralo, sta per bruciarsi. Sembra che alcuni di loro piangano, se ne stanno fermi, ma sentono la brace ardergli sulla pelle. Gira quello. Li stai rivoltando come calzini. Ci stanno rivoltando come calzini. Soffia. Si può sapere cos'hai intenzione di fare? Ma a proposito di cosa? Lo sai bene. Lasciami in pace. No, scusa, non posso lasciarti in pace. Si sta bruciando, quello al centro. Giralo. La vita ci cuoce a puntino. Inquieti su un fianco, poi nell'altro. Chissà se provano dolore. Ma chi? I peperoni? Soffia. Ecco, la solita brace a chiazze. Lì non sta bruciando nulla, è ancora verde. Il solito destino da privilegiato, fagliela vedere, spostalo e mettilo sopra il più grosso ardente tizzone. Soffia, soffia, soffia, fagliela pagare, voleva farla franca, soffia, soffia, ancora, soffia, guarda le fiamme come lo consumano, soffia soffia. Ecco, puoi buttarlo via. Fumo e cenere. Però hai fatto giustizia. Già, fosse così facile. Hai visto la giunta Pdl? Fiorito? E in Campania? E in Calabria? E Grillo? E in Lombardia? E Formigoni ancora al suo posto? Quanta feccia. Vorrei che per ogni peperone ci fosse una vita sprecata. Cosa ti fa credere che tu non meriti quel posto sulla brace? Boh. Ecco, allora sta' zitto. Perfetto, no, fermo, che fai, quello è ancora verde. Ma dove? Sei cieco? Lì! Dai, è perfetto, e invece no! Sì, basta, lo metto in borsa. Sbrigativo, tagli corto. Sei impulsivo. Non è vero. Frettoloso, non pazienti. Non è vero. Dovresti ponderare un po' di più sulle cose. Lo sto già facendo. Cosa ti aspetti da me? Prendi quello in basso, lì, a destra. L'unica triennale di tre giorni la tua. Ho fatto le mie scelte. Te ne pentirai. Vedremo. Venderai l'anima al diavolo? Sì, se mai un giorno mi proponesse lo scambio. Soffia. Ti sta sfuggendo di mano. Ripieni prosciutto, mozzarella e pan grattato. Conditi col superfluo della vita. Come se già non bastassero per natura. Gli ultimi due. Hai quasi finito. Puzzo di fumo. Approfitteremo del caldo, potremmo lavarci in terrazza. Come in estate? Sì. Nudo e crudo, l'orizzonte di fronte. Soffia. Soffia. Soffia. Finito. Adesso qualcuno dovrà pulirli. Hanno scontato la loro pena, passeranno dal purgatorio, spogliati del peccato si vestiranno d'olio, aceto e limone. L'apoteosi. Ti avviso: io non li digerisco. Chiamala. Ok...
giovedì 13 settembre 2012 5 commenti

Dannati a tempo indeterminato

Non è un'offerta di lavoro. Vorrei tanto esservi d'aiuto in questo senso, ma purtroppo i contratti di cui parleremo nel mio post non prevedono retribuzione alcuna.
In queste ultime settimane ho avuto stretti rapporti col demonio. Non abbiate paura, non è necessario un esorcista, mi sono semplicemente dedicato (anima... e corpo) al "Faust" di Wolfang Goethe. Proprio oggi ho finito di leggerlo e, giusto per rincarare la dose passando dal libro al grande schermo (in bianco e nero), ho guardato "la bellezza del diavolo", un film di René Clair, anno 1950.
Nonostante le immancabili incongruenze in alcuni casi necessarie fra il libro ed il film, entrambe le opere narrano la storia del Dott. Faust, uomo di scienza, sapiente filosofo, conoscitore delle più nobili arti, laureato e in cerca di lavoro. No. Aspetta. Siamo nel secolo XVIII. Laureato e rispettabilissimo docente universitario.
I lunghi anni trascorsi sui libri, l'età che avanza e la vita che sfugge via, suscitano in Faust un senso d'inesorabile insoddisfazione lasciandogli in bocca l'amaro retrogusto di chi ha per decenni ricercato il sapere assoluto senza godere del sale della vita. Chiuso nel suo studio, vivendo attimi di profondo malessere, Faust attira il diabolico fiuto di Mefistofele, servitore di Lucifero e malvagio tentatore, il quale gli propone di vendere la sua anima in cambio del raggiungimento del più alto sapere e dei segreti della Natura.

FAUST: "Se ma i verrà il momento in cui io, appagato, mi adagi sul letto del riposo, la sia tosto finita per me! Se lusingandomi potrai mai così illudermi che io mi compiaccia di me stesso, se coi godimenti potrai così ingannarmi, sia quello il mio ultimo giorno! Ecco la scommessa che t'offro."
MEFISTOFELE: "Accettata!"
FAUST: "Ecco la mano. Se mai dirò all'attimo fuggente: Arrestati! sei bello! tu potrai mettermi in ceppi: sarò disposto a perire; e allora la campana suoni pure a morto, sarai esentato dal tuo servizio, si fermerà il pendolo, cadrà la lancetta, il tempo sarà conchiuso per me."

Questo è uno dei due capisaldi attraverso i quali si articolano e si snocciolano le vicende del Faust. Il libro e il film d'ora in poi prenderanno pieghe differenti, ma vorrei che ci soffermassimo un attimo sulle parole di Faust e sul naturale slancio del suo animo verso le vette più alte dell'infinito. Non è forse la stessa ricerca della soddisfazione ultima delle nostre vite? Non è forse l'entelechia verso cui tende ogni singolo attimo della nostra esistenza?
Lo "streben" (l'ambizione, il "tendere verso il gradino successivo dell'appagamento") ha da sempre caratterizzato il fine ultimo delle nostre azioni. E' un processo senza sosta che, partendo dall'inizio dalla preistoria con le più banali scoperte dell'evoluzione umana, giunge fino ai tempi moderni, figli dello stesso desiderio di superamento identificabile nel progresso.
Oggettivamente parlando, è riconoscibile in ogni campo di ricerca e di studio: scienza, medicina, tecnologia, arte, architettura, telecomunicazioni e così via. Parlando di "ricerca del risultato", non mi sentirei d'escludere nemmeno lo sport (vedi "dopati di vita").
Soggettivamente parlando, è ancor più evidente nella costruzione del nostro personalissimo futuro: nascita, crescita, scuola, diploma, laurea, certificazioni, corsi, master, stage, studio, lavoro, studio, lavoro, stipendio, studio, lavoro, stipendio, famiglia, soddisfazione, appagamento, tensione verso l'alto per GODERE dei propri attimi e poter dire come Faust "arrestati! Sei bello!".

FAUST: "Oh, come vorrei vedere questa folla brulicante, come vorrei stare in terra libera fra una libera gente. Allora potrei dire all'attimo fuggente: «Arrestati! Sei bello!»"
MEFISTOFELE: "Nessuna gioia lo aveva appagato, nessuna felicità gli era bastata, sempre anelando a nuove forme di possesso; e poi spunta un ultimo istante, mediocre e vuoto, e il pover'uomo anela a trattenerlo per sempre. Ecco colui che mi ha resistito sì fieramente: il tempo lo ha vinto, giace sulla terra il vecchio. L'orologio si è arrestato."

Questo è il secondo caposaldo della narrazione. Il "genuss" (la gioia, il piacere, il godimento) a cui anela Faust-umanità rappresenta l'interruzione, l'arresto di questo continuo e irrefrenabile ritmo ascensionale per poter finalmente vivere il proprio tempo nella gioia della soddisfazione. Ecco. Sapete meglio di me che questa condizione non è verificabile nel progresso attuale in cui siamo immersi e, a ragion veduta, mai potrà essere plausibile nel futuro che ci attende. Parallelamente alla sorte di Faust, tagliare il traguardo significherebbe raggiungere la fine del nostro tempo (o l'inizio di una nuova, statica vita, conclusa per scopi e obiettivi).

MEFISTOFELE: "Oh, che qualunque cosa facciate siete perduti, o uomini! Gli elementi sono congiurati con noi e tutto tende all'eterno nulla!"

Un contratto a tempo indeterminato esiste e l'abbiamo sottoscritto tutti quanti, non forse direttamente col demonio, ma con noi stessi. Il fine ultimo, l'appagamento, la soddisfazione dell'animo, a qualsiasi costo e a qualsiasi prezzo. La ricerca ultima della felicità per godere dell'attimo. Ma è proprio durante questo stesso percorso ascensionale che "la gente non si accorge mai di avere da fare col diavolo, neppur quand'esso la tiene per il colletto".



 Firma
giovedì 30 agosto 2012 2 commenti

(S)guardo

Visto da qui, un chilo di ferro pesa più di un chilo di paglia. Visto da qui, aprire l'ombrello quando piove impedisce ai mari della terra di riversare le proprie lacrime sulla nostra pelle. Visto da qui, non sono gli ultimi ad essere i primi, né tanto meno saranno i primi ad essere gli ultimi, ma semplicemente chi sta in mezzo saprà godersi gli equilibri della vita. Visto da qui, i soldi comprano la felicità, ma sono ugualmente disposti a rivenderla al medesimo prezzo. Visto da qui, sono i mercati ad andare al mercato, riempiendo le borse della spesa di anime e sogni. Visto da qui, lo spread non è il differenziale fra titoli di stato, ma sono le diottrie che mancano agli uomini per poter osservare le stelle. Visto da qui, la Siria non ha abbastanza oro nero da giustificare una missione di pace. Visto da qui, la Libia ne aveva abbastanza da giustificare una guerra. Visto da qui, non è crisi, ma è abbondanza. Visto da qui, non è l'uomo che crede in dio, ma è dio che crede sul serio d'esistere. Visto da qui, l'abito deve fare il monaco. Visto da qui, non è il futuro a far paura, ma è sempre lo stesso passato ad annoiare un po'. Visto da qui, non lo chiamerei pessimismo. Visto da qui, non lo chiamerei ottimismo. Visto da qui, alla fine i conti con la realtà li facciamo tutti. Visto da qui, non sono i calciatori a guadagnare troppo, ma è la gente a passargli lo stipendio. Visto da qui, non è la tassa sulle bibite gassate, è certa gente che si gassa con le tasse. Visto da qui, non è il silenzio a dir di sì, ma è la parola che manca per dir di "no". Visto da qui, non sono i vegetariani a non mangiare carne, sono i carnivori che purtroppo hanno smesso di mangiare vegetariani. Visto da qui, chi dorme non piglia pesci, ma può sempre sognarli. Visto da qui, chi pesca sveglio spesso se ne torna a mani vuote. Visto da qui, non è il tempo ad esistere, ma siamo noi ad avere bisogno di misurarlo. Visto da qui, non è dove sei, ma con chi stai. Visto da qui, non è la luna piena, ma sono gli occhi di chi la vede. Visto da qui, non è il rischio di viverlo, ma di ricordarlo. Visto da qui, non sono i grandi uomini a fare le masse, ma sono le masse a fare grandi gli uomini. Visto da qui, avere paura d'accettare le grandi contraddizioni della vita impedisce d'assaporare la felicità delle coerenze che ne derivano. Visto da qui, non serve che sia "per sempre", ma basta gioire del "per ora". Visto da qui, "occorre che tutto cambi affinché tutto resti com'è". Visto da qui, non è il dirigente, ma sono i diretti interessati. Visto da qui, conveniva un po' per tutti, anziché tanto per pochi. Visto da qui, è meglio una realtà che ferisce di un'apparenza che inganna. Visto da qui, non c'è Jekyll senza Hyde. Visto da qui, l'arcobaleno ha gli occhi azzurri e i capelli biondi. Visto l'orario, credo sia ora d'andare a letto...
domenica 12 agosto 2012 2 commenti

Affittasi bilocale

C'è una stanza nella nostra mente subito accanto a quella della memoria in cui vengono stipati i fantasmi dei ricordi. La memoria tiene la porta sempre aperta e lascia che chiunque, liberamente, possa entrare ed uscire a proprio ghiribizzo e discrezione, inquilini di passaggio.
Tra i ricordi invece è consuetudine che ci sia maggior discrezione, la porta resta sempre chiusa e varcano la sua soglia solamente pochi e meritevoli eletti.
Alcuni se ne stanno lì fermi per anni dopo esservi entrati e invecchiano fra l'odore acre delle sigarette e della monotonia. Non è possibile infatti che abbandonino la propria dimora quando lo desiderano dato che solamente il caso o la triste mancanza può dar loro la libertà. Ed è un bene per la sanità mentale del padrone di casa che se ne stiano per lungo tempo segregati dentro. 
I più giovani ricordi, da poco entrati, sanno che difficilmente verranno chiamati all'appello fuori dalla stanza, per questo se ne stanno silenziosi a girarsi i pollici sdraiati nelle loro brande e guardando il soffitto. Gli anziani, ben coscienti che da un momento all'altro può giungere il loro turno, sono sempre carichi e pronti, in attesa di poter sfogare l'energia accumulata nel tempo che tutti gli uomini sono soliti chiamare "nostalgia".
Basta poco, purtroppo, affinché gli sbarramenti si spalanchino. Un odore familiare, le note già suonate di un'amara melodia o, più spesso, rielaborazioni di realtà vissute e riproposte dal desiderio, ladruncolo da strapazzo che a volte forza la serratura e lascia che ricordi, vecchi e giovani, fuggano via.
Non appena per uno di questi svariati motivi i sedentari e silenziosi inquilini hanno la possibilità d'evadere, s'incanalano come forsennati nel torrente ematico e raggiungono ogni organo o angolo del corpo. La mente, padrone di casa, per evitare lo shock tenta quindi in tutti i modi d'arrestare la loro avanzata; i giovani ricordi, ancora inesperti, vengono a volte ricacciati dentro, ma gli anziani, abili e saggi, guizzano via e corrodono dall'interno.
Come tarli affamati macinano cuore e fegato, creando disturbi e risentimenti. Gli occhi, vittime degli stessi trattamenti, vengono costretti a proiettare nella mente quanto in passato ebbero modo di vedere, perché è proprio l'atto visivo il diretto responsabile della segregazione di giovani ed anziani nella stanza dei ricordi. Per questo motivo, per avere vendetta certa, l'energia sprigionata, la "nostalgia", è così potente da invadere anche gli attimi in cui si guarda la vita ad occhi chiusi, cioè i sogni. Nemmeno loro vengono risparmiati e sfortunata è la sorte di chi sguinzaglia i ricordi nel sonno, poiché è così reale la situazione in cui la mente viene dolcemente catapultata che il risveglio infrange per due volte la speranza che sia ancora una volta tutto vero.
L'unico modo per liberarsi della stanza dei ricordi è l'apatia, ma questo implicherebbe un'esistenza di distacchi, lontana dai piaceri e dal sale della vita.
Alcuni, invece, decidono di rendere innocui i fantasmi del passato rimpiazzandoli con un nuovo presente. Questa però è una soluzione in fin dei conti trascurabile, perché alla sopraffazione dell'uno corrisponde la nuova e possente forza dell'altro.
E' innegabile, a questo punto, che ad ogni mancanza corrisponde il ricordo d'aver avuto, mentre nuovi inquilini vengono ospitati nel corso della vita. 
E secondo il postulato che non esiste "nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria", molti uomini sono indotti ad aver paura della vita e della felicità, scansando quanto di più piacevole possa offrirgli l'esistenza poiché, a ragion veduta, ogni inizio decreta immancabilmente una fine. 
Ma se il timore del non-essere ci priva d'essere, chi può dire d'essere?
giovedì 9 agosto 2012 4 commenti

Schwazer & Co.: dopati di vita

Avrei preferito ricominciare a postare, dopo tutto questo tempo di pausa creativa, senza appesantire le vostre noie con un'attualità che già conoscete. Purtroppo i TG di quest'ultimo periodo hanno contribuito, giorno dopo giorno, ad accrescere i livelli di vomito acido e rancido dentro il mio stomaco fino a giungere, adesso, alla sboccata definitiva con questo post.
Prima gli Europei, adesso le Olimpiadi. Un anno sportivo, pieno d'eventi a rotazione e con la Rai che si rimpinza di diritti televisivi, share e pubblicità. Purtroppo però, nello sport che move il sole e l'altre stelle, un'improvvisa eclissi ha gettato un'ombra densa e pesante su un nostro atleta montanaro e ghiotto di Kinder Pinguì: Alex Schwazer.
Il 6 agosto infatti, dopo un controllo antidoping a sorpresa del 30 luglio scorso, viene trovato positivo all'EPO (eritropoietina), decretando l'inizio del suo inferno in terra fatto di tribolazioni e gogne mediatiche. Una società pulita e corretta come la nostra non può permettersi scivoloni del genere, ancor più in ambito sportivo, dove siamo abbastanza forti da eccellere senza l'aiuto della scienza. Vergogna, biasimo e vituperio quindi brucino come rogo le carni del povero Schwazer, perché noi non perdoniamo, lo sport non perdona, la legge non perdona, le regole... vanno... rispettate... senza "se".... e... senza... "ma"... un gesto... riprovevole... che occorre... condannare?
Io non so se tutte le giornaliste o i giornalisti che si sono cimentati nella diffusione della notizia hanno abbastanza senso della realtà da non rendere i loro servizi così ipocriti e schifosamente falsi. Non posso chiedere, sia chiaro, che non si condanni il gesto di Schwazer, ma ho come l'impressione che tutti ci stiano prendendo un po' la mano e che abbiano trovato il momentaneo capro espiatorio per la purificazione di peccati che da lungo tempo ci si ostina a nascondere.
Lo sport, ormai dagli anni 50, si trascina dietro un'accozzaglia di elementi guasti, falsi e bugiardi che giocano al piccolo chimico. Ogni ambito della vita è intriso della stessa voglia di riuscire e superare il prossimo salendo il gradino più alto del podio, in un circolo vizioso che in onor del fine giustifica ogni mezzo. Non si tratta di doping, si tratta d'arrivare per primi. Ma continuiamo a parlare di sport.
Hulk Hogan nel 1994 in un processo per doping contro la World Wrestling Federation ammise di aver utilizzato steroidi per 12 anni.
Ben Johnson, centometrista, corse come un missile durante i Giochi olimpici di Seoul, vincendo la medaglia d'oro, stabilendo un nuovo record mondiale e stracciando il suo rivale Lewis. Alcuni giorni dopo, analizzando le urine del supereroe, venne rilevata la presenza di steroidi e il povero Johnson fu costretto a riconsegnare la medaglia.
Arnold Schwarzenegger, bodybuilder di fama mondiale e sette volte Mr. Olympia,  ha ammesso d'aver fatto uso di steroidi anabolizzanti. In risposta a quanto dichiarato da Arnold, il vecchio presidente Bush Sr. lo nominò quindi direttore del Consiglio sul Fitness e sullo Sviluppo Fisico.
Sylvester Stallone ha per anni fatto il fattorino degli steroidi. Un po' come l'uomo del latte, con l'unica differenza che davanti al portone di casa lui lasciava siringhe e lacci emostatici. 
Daniele Seccarecci, bodybuilder italiano, è stato da poco arrestato per uso e commercio di sostanze dopanti. Ora, se vi posto una foto di Hannibal Lecter voi dubitate che sia vegetariano. Se vi posto una foto di Seccarecci, credete forse che sia diventato così a fette biscottate e marmellata?


Mark McGwire, giocatore di baseball statunitense, sfondò nel 1998 il record di 70 home-runs. Osannato come un Gesù Cristo nella sua ipotetica seconda venuta, nel gennaio 2010 ammise d'aver fatto uso di steroidi. Barry Bonds nel 2001 ruppe il record di McGwire: 73 home-runs. Almeno lui era pulito. Invece no. Doping anche stavolta. Si alzò un polverone e saltò fuori il nome di Victor Conte, papà steroide, ex musicista, fondatore della BALCO (centro di studio e ricerca). Si scoprì che aveva fornito sostanze dopanti a centinaia di atleti professionisti. I suoi campi di gioco preferiti erano quelli del baseball e delle piste olimpioniche.


Ci siamo limitati al farmaceutico-scientifico, ma non dimentichiamoci che il problema non è il doping in sé, ma il raggiungimento della vetta, con qualsiasi mezzo possibile.
Tonya Harding, ex pattinatrice artistica su ghiaccio, nel 1994 ideò un piano diabolico insieme al marito Jeff Gillooly per mettere fuori gioco la rivale Nancy Kerrigan. Dopo alcune indagini emerse la verità: Jeff e Tonya furono accusati d'aver pagato un teppistello affinché colpisse Nancy al ginocchio con una spranga, in modo da farle guardare i Giochi olimpici invernali dalle tribune seduta comodamente su una sedia a rotelle.
Rosie Ruiz, maratoneta, (e qua c'è da ridere un sacco), vinse nel 1980 la prestigiosa maratona di Boston, siglando il tempo record di 2.31'56'', migliorando di oltre venti minuti i tempi precedentemente stabiliti. Giunse al traguardo fresca come una rosa, non puzzava nemmeno di sudore e spiegò ai giornalisti che, semplicemente, "si era svegliata piena di energie" quella stessa mattina. Già, piena di energie e con i biglietti della metropolitana in tasca. Si scoprì infatti che la Ruiz più di una volta si servì della metro per accorciare le distanze e per questo motivo nessuno poteva testimoniare il suo passaggio ai checkpoint. Perché doparsi, quando puoi semplicemente pigliare l'autobus?
Tiger Woods, celebre golfista statunitense, si è sottoposto ad un'operazione agli occhi detta Lasik e adesso la sua acutezza visiva raggiunge i 20/15. Per rendere l'idea, un occhio sano e funzionale può raggiungere i livelli massimi di 20/10. 
Woods è quindi decisamente sopra la media e potrebbe infilare senza problemi una pallina da golf nel vostro ano mentre correte nudi dall'altra parte della strada.

Adesso tenetevi forte perché siamo alla frutta.


E' proprio questo il punto. "Ogni singola persona cerca d'avvantaggiarsi sull'altra, al fine di vincere quella determinata battaglia". Qui non si tratta di Schwazer, non si tratta di Arnold o di tutti gli altri fanfaroni che hanno venduto l'anima al diavolo pur d'arrivare in alto. Il problema è la lunga, incessante corsa dell'evoluzione e della sopravvivenza che lascia spazio solo al mito, al supereroe, dove non c'è posto per i mediocri ma solo per chi eccelle. E la società marcisce, perché ogni concorrenza può essere una minaccia e a decretare chi sarà il pesciolino rosso o lo squalo lo decide chi per primo mangia l'altro. Non c'è tempo, in ufficio, in pista, in strada, in campo, sul ring. La vetta non aspetta. 
Schwazer non impersona il dramma dell'atleta che è caduto nel baratro del doping, vorrei che lo capiate. Schwazer è l'ennesima metafora di una vita che non conosce morale e sa contare solamente fino ad 1. 


(gli spezzoni che ho caricato sono stati estrapolati dal film "Bigger, Stronger, Faster")
martedì 24 luglio 2012 12 commenti

Conto fino a dieci

Rozzo e nerboruto, non molto alto, decisamente impulsivo. Mai la vita gli diede l'opportunità d'apprendere la nobile quanto precaria arte del vivere sociale, fatta d'educazione e pazienza. Per molti anni un vecchio orfanotrofio gestito da suore fu la sua unica dimora, spiacevole, poco accogliente, di certo non avrebbe reso orgoglioso il Cristo che gentilmente aveva prestato il nome alla struttura. Non aveva un buon rapporto, né con le suore, né con il resto dei compagni che con lui condividevano quella triste situazione, ma sapeva bene che un tetto ed un pasto caldo muffito raramente lì fuori, con quel caratteraccio, l'avrebbe trovato.
La svolta arrivò ad inizio estate, quando una coppia giovane di sposini a causa della di lui sterilità, ebbe la felice idea d'adottare un pargolo del "Bambin Gesù". Inspiegabilmente, fra i faccini delicati e puliti di coloro che sapevano di giocarsi il futuro in un sorriso, scelsero proprio il suo lerciume. Lui, incredulo tanto quanto i suoi amici per la buona sorte, corse timido ad afferrare le mani dei suoi nuovi tutori, capo chino. Era stato scelto, qualcuno l'aveva accettato e stavolta non con un'ascia (per aver sferrato un cazzotto ad un suo compagno di stanza, infatti, suor Germana tempo addietro lo minacciò con l'accetta per la legna).
Ne venne fuori una famiglia veramente felice. Lo ripulirono, lo sgrassarono per bene, gli impartirono un'educazione ferrea con le giuste sfumature di vizi e capricci. Un nuovo futuro gli si stagliava di fronte, fatto di rapporti umani e di confronti col prossimo. Il padre, insegnante di lettere, gli trasmise la passione per la letteratura e le arti umanistiche; la madre, insegnante di filosofia, lo illuminò con il profondo sapere delle grandi personalità greche. Mise in moto il cervello, ripartirono meccanismi ed ingranaggi che per molti anni, incrostati di ruggine e assopiti dal lavoraccio svolto dalle suore, non gli permisero di sfruttare appieno le sue potenzialità. Tanto fu brillante che i suoi nuovi genitori non ritennero necessario mandarlo a scuola. Aveva tutto ciò che serviva per eccellere e, oltretutto, poteva pur sempre contare sull'aiuto dei due insegnanti di famiglia.
Una sola cosa non riuscirono a correggergli: quella stramaledetta, irrefrenabile impulsività. Perdeva facilmente le staffe e il suo raziocinio correva veloce quando si trattava d'apprendere, ma cozzava contro un'imponente muro quando era ora d'aver pazienza. Per carità, l'educazione e i princìpi che aveva facilmente imparato lo portavano ad uscire fuori dai gangheri per delle palesi ingiustizie, ma non sempre è possibile dar sfogo alle proprie fantasie, perché c'è chi dice che dove difetta la legge terrena ci pensa quella divina.
Gli anni trascorsero tranquilli e le sue giornate si rincorsero l'una dietro l'altra, fra lavori manuali e intellettuali, connubio che ricorda alla mente di tastar le idee con le mani e alle mani d'essere attrezzi della conoscenza.
Accadde una notte, figlia della più spietata insonnia, che a lungo rimase a fissare il soffitto, senza che il sonno potesse far strage dei suoi pensieri. Solo all'alba riuscì a sentire pesanti le palpebre, ma l'inaspettata e folle ingiustizia girò l'angolo disturbando la sua anima. Il vicino di casa, noncurante delle necessità altrui, aveva infatti dato sfogo alle sue libertà lasciando urlare al suo stereo le note di orribili canzoni da dopoguerra. La musica, forte ed assordante, sfondò le pareti della sua stanza picchiettandogli i timpani; l'insonnia tornò e, sentendo la follia salirgli in corpo, uscì di casa, ciabatte e pigiama.
Giunto che era di fronte alla porta del presunto malfattore, bussò con violenza. Gli aprì un ciccione in mutande con aria indifferente, dalla camicia sporca di sugo e il boccone ancora fra i denti. Il nostro vecchio orfanello lo scansò con violenza, facendogli andare di traverso quanto stava tentando di masticare e, raggiunto il salone in cui si trovava lo stereo, afferrando con rabbia una sedia a lui vicina, iniziò a martellare il frutto di quell'odio che tanta rabbia gli aveva suscitato in corpo. Ridusse tutto in mille pezzi, sedia e stereo, poi andò via. Il padrone di casa, spaventato, non ebbe nemmeno il coraggio di replicare.
Tornatosene a casa, finalmente regalò un dolce sonno alle proprie membra.
Accadde, la settimana successiva, che la rabbia del nostro orfanello nuovamente facesse capolino fra le pieghe della sua apparente tranquillità. Stavolta, tornando a casa in auto, rimase bloccato lungo la via da una macchina inspiegabilmente parcheggiata di traverso. Di grossa cilindrata, fiammante ed arrogante, tutto lasciava intendere che i legittimi proprietari di quel mezzo dovessero essere altrettanto superbi. Sentì quella strana e solita sensazione di giustizia ribollirgli in corpo e, senza pensarci troppo, scese dalla sua auto, diretto al rifornimento di benzina più vicino a lui. Riempì quante più bottiglie poté e, tornato sul luogo del misfatto, iniziò a cospargere di carburante la tracotanza che bloccava la strada. Poi, non appena vide d'averla bagnata per bene, diede vita al più grande falò di giustizia che mai illuminò l'umanità. Stavolta, però, qualcuno fece giustizia su di lui e si beccò carcere e denunce.
Pagata la cauzione, i suoi genitori adottivi ebbero l'anima abbastanza pia da ridurre le sue pene. Tornati a casa iniziarono a crogiolarsi e ad affliggersi su cosa essi avessero sbagliato nell'impartire la giusta educazione al proprio figlio. Pensarono a lungo, per giorni e giorni, ma alla fine, perché ogni sforzo di ricerca dona a chi persevera il dolce sapore della vittoria, trovarono il problema: la matematica. Non avevano infatti mai imparato al proprio figlio le tabelline e i numeri; questo chiaramente gli impediva di contare fino a dieci attendendo che il ribollir della sua ira si placasse senza sfogo alcuno.
Iniziarono subito. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9.... Bastò arrivare fino a 10. Da allora in poi, in qualsiasi istante la rabbia del nostro orfanello incendiasse la sua anima, una paziente conta numerica gli permise di inghiottire ogni boccone amaro. 
"Ché ad andar avanti ad occhio per occhio, il mondo diventa cieco..."
venerdì 13 luglio 2012 6 commenti

Utopia

Nonostante io l'abbia sfilato via dalla libreria di casa titubante e timoroso d'immergermi nella più tediosa delle letture, molti sono stati gli spunti e le riflessioni che hanno reso fruttuoso il tempo trascorso in compagnia del Moro. Prima che queste possano fuggire via dalla mia memoria, non posso che scrivere due righe sul blog e condividerle con voi.
Thomas More (italianizzato in Tommaso Moro senza che lui ne abbia espresso consenso), è l'autore del libro che poco sopra ha dato il titolo a questo post: "Utopia". Prima di analizzarne direttamente la trama, vorrei spendere due paroline sull'etimologia stessa della parola, sapientemente coniata dallo stesso Moro.
Utopia, da οὐ ("non") e τόπος ("luogo") significa letteralmente "non-luogo". Questo già ci spinge ad indagare sul contenuto del libro che, dato il titolo, si suppone tratti di qualcosa che va oltre il reale concepimento di uno spazio o di un'idea e dia libero sfogo all'immaginazione. Come Wikipedia ci fa notare però, dall'omofonia inglese dovuta alla pronuncia di "utopia" ed "eutopia" ne risulta un'etimologia differente, un po' più rassicurante, che deriva dal greco εὖ ("buono" o "bene") e τόπος ("luogo"), "buon luogo", segno che in quel "non-luogo" probabilmente vorremmo tanto poterci vivere.
Il Moro giocherà col greco (anch'io lo facevo durante i tempi del liceo ottenendo l'insufficienza) per tutta la durata della lettura, coniando termini geniali e pieni di significato.
La narrazione si apre proprio con Tommaso Moro che, giunto a Bruges "avendo di recente l'invittissimo re d'Inghilterra Enrico VIII avuto quistioni di non poca importanza col serenissimo Carlo principe di Castiglia", avrà modo di incontrare prima Pietro Gilles, "un giovane anversese di gran riputazione", e poi il protagonista di questa sua storia, Raffaele Itlodeo (da υθλος «ciarla» e δαιειν «distribuire», «distributor di ciarle»).
Raffaele viene presentato al Moro dall'amico Pietro come un instancabile viaggiatore il quale, per sua stessa "bramosia di andar osservando il mondo tutto", si unì ad Amerigo Vespucci non abbandonandolo mai se non durante l'ultimo e più interessante viaggio, quello verso l'isola d'Utopia. 
Secondo le anticipazioni di Pietro, infatti, non appena sbarcarono "cercò e ottenne a viva forza dal Vespucci di far parte anch'egli di quei ventiquattro che rimasero laggiù, nel castello, all'estremo limite dell'ultimo viaggio".
Tommaso quindi, incuriosito dalle parole dell'amico, di gran voglia accetta d'essere ufficialmente presentato ad Itlodeo, con la speranza di poter approfondire una così interessante storia e apprendere qualcosa di nuovo dai suoi viaggi.

"Questo mi raccontò Pietro, onde io molto lo ringraziai della cura da lui messa a procurarmi di conversar con tal uomo, col quale sperava che mi sarebbe stato gradito parlare. Poi mi rivolsi a Raffaele e, salutatici l'un l'altro e scambiati quei convenevoli soliti fra forestieri in un primo incontro, ci volgemmo verso casa mia e ivi, nel giardino, ci ponemmo a conversare su di un mucchio di zolle erbose a mo' di panca."

In questa prima parte (libro primo) dell'opera, Tommaso Moro discute insieme a Pietro Gilles e a Raffaele Itlodeo dei temi più delicati e politicamente importanti che affliggono l'Inghilterra del XV secolo, dando vita a discussioni di un certo peso sociale come il ruolo della pena di morte nell'arginare i crimini o l'abolizione della proprietà privata.
Raffaele, dando prova delle sue conoscenze frutto di mille esperienze, viene quindi invitato dallo stesso Moro a mettere la sua vita al servizio della politica inglese, da uomo capace ed evidentemente in grado di gestire la cosa pubblica. Ne scaturisce, dal contrasto verbale che ne segue, un'interessante conversazione sul ruolo del filosofo-re all'interno dello Stato, abbracciando una sempre attuale citazione di Platone:

"Non c'è dubbio che Platone previde chiaramente che, a meno che i re non studino filosofia, non si darà mai il caso che approvino del tutti i consigli di chi fa il filosofo, così imbevuti come sono di malvagie opinioni e corrotti sin da bambini [...]
Credete voi che, qualora io proponessi a qualche re delle sagge decisioni, sforzandomi di strappar dal suo cuore quei semi perniciosi di mali, non mi caccerà via immediatamente o non mi renderà oggetto di scherni?"

E così Itlodeo continua sulla necessità del filosofo di non dover prendere parte alle ingiustizie e alle opere empie della politica, proseguendo la sua vita sereno e beato, distaccandosene:

"E' come se vedessero, dice, la gente sparsa in una piazza bagnarsi a un acquazzone dietro l'altro, e non riuscissero a persuaderla a lasciar la piazza e rientrare in casa; in tal caso, sapendo che niente otterrebbero a uscire loro se non di inzupparsi insieme con gli altri, se ne stanno chiusi in casa: quando non possono mediare all'altrui pazzia, si devono contentare di starsene al sicuro almeno essi."

La discussione prosegue e l'amichevole alterco fra i due crea l'anello di congiunzione fra il primo e il secondo libro, libro in cui Raffaele narra con precisione le sue esperienze su Utopia, descrivendo con dovizia di particolari anche la struttura sociale e amministrativa di un così affascinante luogo.


Politica e burocrazia

L'isola di Utopia consta di 54 città, "ampie e magnifiche, quasi tutte uguali per lingua, usanze, istituzioni e leggi". La capitale, Amauroto (dal greco «αμαυρος», «ignota»), potremmo immaginarla come la sede del parlamento e qui, ogni anno, tre cittadini fra i più anziani e saggi di ogni città si riuniscono per "trattar degli affari comuni dell'isola".
Ogni città è amministrata e guidata da un senato, composto da filarchi e protofilarchi. Ogni filarco viene eletto ogni anno da 30 famiglie e, raggiunta la quota di 10 filarchi, si elegge un protofilarco (annuali anch'essi, ma raramente vengono destituiti). Raggiunta la quota di 200 filarchi si elegge un principe (a vita) fra quattro candidati scelti dal popolo; spetterà poi ai filarchi decretare, giurando imparzialità, chi fra i quattro candidati merita l'elezione.
Al senato "nazionale" quindi si lega anche un senato "comunale" che si riunisce (raramente) per decidere sulle questioni locali più urgenti.


La famiglia e il lavoro

La famiglia in Utopia è l'istituzione più importante, come fondamento delle successive. Ogni famiglia "non è fatta di meno di 40 persone, tra uomini e donne, oltre a due servi della gleba, e a capo vi son messi padri e madri di famiglia gravi e attempati." Il numero delle nascite viene sapientemente controllato affinché una città non si popoli troppo o, al contrario, sia costituita da poche unità. E' necessario dunque che "nessuna famiglia abbia meno di 10 o più di 16 giovani ed è facile serbare questa misura, col trasferire presso famiglie che ne manchino i giovani in soprannumero di famiglie troppo fornite."
Ogni anno da ogni famiglia tornano in città 20 componenti di essa, alternandosi agli altri 20 che hanno appena concluso i 2 anni di campagna. Questo lavoro d'alternanza serve ad istruire coloro che giungono per la prima volta dalla città alla campagna, permettendo nel frattempo ai 20 che sono rimasti di completare il secondo anno, per poi ritirarsi in città, e così via. Oltretutto, tale importante gioco di ruoli evita che qualcuno "sia costretto contro voglia a continuare più a lungo una vita troppo aspra, tuttavia molti, che son presi naturalmente da passione per tutto ciò che è campagna, ottengono di restarvi per più di un anno."
Ognuno svolge il proprio ruolo, sia che si tratti di qualsiasi lavoro consono alla vita di campagna (trasportare legna, coltivare la terra, allevare animali, ecc.) sia che si tratti di mestieri differenti o politicamente importanti come quelli dei filarchi o protofilarchi (i quali, a loro volta, stanno bene attenti che "nessuno se ne stia senza far nulla, in braccio alla pigrizia, ma attenda al suo mestiere con sollecitudine, senza però stancarsi, come una bestia da soma, a lavorare ininterrottamente dalla mattina per tempo fino a sera tardi [...]").
Tutto viene prodotto in abbondanza in sole sei giornaliere ore di lavoro. Ogni famiglia scambia con il resto degli abitanti le proprie abbondanze dando luogo ad intrecci ed equilibri fra rapporti del tutto indissolubili e fondati sulla reciproca condivisione di materie prime.
Non so se avete notato sopra, ho scritto sei, non sette o quattordici, ho scritto sei. Sei ore di lavoro giornaliere. Tre ore prima di mezzogiorno, pranzo, pennichella, altre tre ore, fine. Le ore rimanenti della giornata possono essere gestite a proprio piacimento dagli abitanti di Utopia che raramente si danno all'ozio e che spesso e volentieri impiegano il loro tempo libero in studi letterari. "I dadi non sono nemmeno conosciuti e così tutti i giochi di tal fatta, insipidi e rischiosi". Si usa infatti tenere lezioni pubbliche durante la giornata a cui tutti possono liberamente prendere parte. Coloro che poi mostrano meriti e attitudini particolari allo studio vengono esclusivamente indirizzati all'istruzione secondo le loro inclinazioni.

"Ma a questo punto bisogna esaminar più precisamente una quistione, perché non cadiate in errore. Potreste infatti immaginare, pel fatto che stanno al lavoro 6 ore al giorno solamente, che ne debba seguire qualche scarsezza delle cose necessarie. Ben lungi da ciò, anzi queste 6 ore sono non solo sufficienti, ma anche di troppo per produrre in abbondanza tutto ciò che si richiede, sia pei bisogni che pei comodi dell'esistenza; e anche voi lo comprenderete, riflettendo fra di voi quale gran quantità di gente viva senza far nulla presso gli altri popoli. Anzitutto quasi tutte le donne, che sono la metà di tutto l'insieme o, se in qualche luogo le donne si danno da fare a lavorare, ivi per lo più gli uomini russano al loro posto. Oltre a ciò, dei sacerdoti e dei cosiddetti religiosi, oh che gran folla! E che sfaccendati! Poniamo ora tutti i ricchi, specie i proprietari di poderi, che chiamano comunemente gentiluomini e nobili; poi mettete nel numero il loro servidorame, cioè tutta quella colluvie di spadaccini e di scioperati; aggiungete infine quei robusti e gagliardi pezzenti, che coprono col pretesto di malattie la loro indolenza, e vedrete che molto più pochi che non credevate son coloro dal cui lavoro risultano le cose tutte di cui si servono i mortali. Ponderate ora dentro di voi fra questi stessi quanto pochi siano quelli che si occupano di un mestiere indispensabile, se è vero che, dove tutto si misura col denaro, si devono necessariamente esercitar molte arti del tutto senza senso e superflue, a servizio soltanto del lusso e del capriccio."

L'economia

Abbiamo già poco sopra asserito che in Utopia tutto viene prodotto in abbondanza e che ogni famiglia mette a disposizione delle altre famiglie i frutti del proprio sudore. Tali scambi e gentilezze fondano la loro naturale esistenza sul principio del benessere comune, del tutto disinteressato, e a favore compiuto ne corrisponde un altro sempre figlio del medesimo spirito d'assistenza reciproca.

"E per qual motivo gli si dovrebbe rifiutare qualcosa, quando c'è abbondanza di tutto non solo, ma non c'è paura che qualcuno chieda più del bisogno? E perché supporre che possa chiedere il superfluo chi è sicuro che non gli mancherà mai nulla? E' la paura di venir a mancare, evidentemente, che rende bramosi e rapaci, e ciò è dei viventi di ogni sorta, mentre, fra gli uomini, ciò è prodotto soltanto dall'orgoglio tirannico, che mette la propria vanagloria nel superare gli altri ostentando il superfluo."

Non esistono denaro, spiccioli o cartamoneta. L'oro viene trattato come un metallo qualsiasi, anzi, meno puro e meno nobile degli altri metalli e fin da subito la viene istruita a rigettarne qualsiasi forma. Reputo superflua ogni mia considerazione e preferisco anche stavolta lasciarvi a delle più che eloquenti citazioni.

"Intanto hanno l'oro e l'argento, donde quella si fa, in conto tale che nessuno li apprezza più che non richieda la natura. E chi non vede quanto per natura sono inferiori al ferro? Tanto che, senza questo, per diana, i mortali non possono vivere, né più né meno che senza fuoco o senz'acqua, mentre intanto all'oro e all'argento nessuna utilità ha concesso la natura, di cui non possiamo agevolmente fare a meno se non fosse che la follia umana ha dato valore alla rarità; ché anzi, come madre affettuosissima, ha messo all'aperto ciò che ha di meglio, come l'aria, l'acqua e la terra stessa, mentre ha riposto assai lontano le cose vane e di nessun vantaggio. Questi metalli dunque non vengono da essi chiusi in qualche torre; se lo facessero, il principe e il senato potrebbero cadere in sospetto, tanta è la stoltezza dello zelo popolare, di ingannar con uno stratagemma il popolo per godere con essi di qualche vantaggio personale. E se ne fabbricassero coppe e altri oggetti di tal genere lavorati da orefici, se venisse mai una circostanza tale da doverli rifondere per dar le paghe ai soldati, comprendono che di mal animo se li lascerebbero togliere, una volta che han cominciato a trovarvi gusto. Per ovviare a ciò han trovato un mezzo che ben s'accorda con le altre loro istituzioni, ma da quelle di noi altri, che facciamo sì gran conto dell'oro e lo teniamo chiuso con tanta cura, è lontano le mille miglia e perciò non è credibile se non per chi ne fa esperienza. Poiché, mentre mangiano e bevono in vasi di creta o di vetro, bellissimi senza dubbio, ma di nessun valore, dell'oro e dell'argento, non negli alberghi comuni soltanto, ma anche nelle case private, fanno comunemente vasi da notte o destinati agli usi più vili, e inoltre si formano con gli stessi metalli anche catene e grossi ceppi per legare schiavi. In ultimo a quelli resi infami da qualche delitto pendono dagli orecchi cerchietti d'oro, oro cinge le dita, collane d'oro circondano il collo e infine anche il capo è stretto in oro. Così in tutti i modi cercano presso di loro di far avere in ispregio l'oro e l'argento, e in tal modo si ottiene che questi metalli, che gli altri popoli in genere non si lascerebbero strappare con minor dolore delle proprie viscere, se anche, presso gli Utopiani, qualche circostanza richiedesse di portarglieli via tutti in una sola volta, a nessuno parrebbe di aver subìto la perdita di un soldo solo."

Dopo il suicidio d'ogni orafo, giungiamo all'apoteosi della verità con il seguente passo:

"Ugualmente stupiscono che l'oro, di sua natura così inutile, sia ai nostri giorni, su tutta la terra, stimato tanto che l'uomo, in grazia del quale e a cui vantaggio ha ottenuto quel valore, venga stimato molto meno dell'oro stesso: talché un qualsiasi zoticone, che può avere meno intelligenza di un ceppo ed essere disonesto non meno che sciocco, tiene tuttavia in servaggio molti uomini e sapienti e buoni, e ciò pel solo fatto che ha avuto in sorte un buon monticello di monete d'oro."

Ci tengo a sottolineare che Thomas More è nato nel 1478 e non sapeva cosa diavolo fosse Mediaset o che, circa 458 anni dopo, sarebbe nato un tale Berlusconi Silvio...

Gli schiavi e le leggi

In Utopia ogni cittadino nasce libero e uguale di fronte alla legge, sia che esso sia figlio di schiavo o preso come schiavo da altri popoli. Nemmeno i prigionieri di guerra meritano un destino così atroce se non coloro che, disobbedendo alle leggi della comunità, si rendono diretti responsabili e artefici del proprio destino.
I cospiratori dello Stato, gli ambiziosi, i tiranni o coloro che semplicemente hanno tentato di spezzare le salde redini della giustizia comune sono destinati ai lavori forzati, per tutta la vita. E' in aggiunta vietato prendere decisioni politiche al di fuori del senato.
Gli alti funzionari dello Stato non sono esenti dal rispettare le medesime, pochissime leggi del popolo affinché non "ve ne siano due, di giustizie, una a piedi, carponi, che conviene al volgo e in nessun luogo può saltar le sbarre e da ogni parte è legata da molte catene; l'altra, la virtù dei prìncipi, la quale, com'è più augusta di quella del popolo, così è di gran lunga più libera, talché a lei è lecito tutto ciò che le piace."
Gli Utopiani non sono avvezzi alle scartoffie della burocrazia e meccanismi semplici, basati sul mero rispetto reciproco e sul lavoro comune, regolano i rapporti fra cittadini e fra Stati. Non esiste un esercito e, in caso di attacchi esterni, è il popolo stesso a difendere la propria terra. Gli Utopiani infatti rigettano qualsiasi conflitto armato. Per questo motivo non sono mai i primi ad avanzare contro i popoli limitrofi, ma si limitano a salvaguardare i propri territori durante eventuali guerre.

"Vi ho descritto quanto più schiettamente ho potuto la forma di quello Stato, che io certo giudico non soltanto ottimo, ma l'unico che possa a buon diritto attribuirsi il nome di repubblica. Altrove, si sa, mentre si parla ovunque dei diritti dello Stato, non si occupano che di quelli privati; qui, invece, dove non esiste nulla di privato, si occupano sul serio delle faccende pubbliche."

Vado a vivere in Utopia?

No. Personalmente preferirei di no.
Volendo fare i pessimisti, considerando il termine "utopia" attraverso l'esclusivo significato di qualcosa di irrealizzabile e fuori da ogni logica, non c'è nemmeno il rischio che si possa giungere ad un modello di società simile.
Volendo fare gli ottimisti, parlando di "utopia" come un insieme di progetti tanto desiderabili quanto realizzabili, è meglio che tutto ciò non accada.
A fine libro, tentando di trarre qualche idea dalle mie letture, sono giunto alla conclusione che, per quanto i canoni d'Utopia siano alquanto lontani dai nostri, è bene che non si realizzino.
La calma piatta in cui scorre la vita degli Utopiani fa di loro degli automi programmati, in grado di fare solo del bene, ma non perché inteso come tale (e quindi frutto di ragion pratica), ma perché inconsapevolmente e meccanicamente riprodotto. 
Gli Utopiani non conoscono direttamente i benefici del male e, per reputarsi soggetti pensanti, occorre incontrarlo direttamente così da saper discernere con senno fra ciò che va fatto e ciò che va evitato.
La presunta abbondanza e la soddisfazione delle mere necessità primarie affondano Utopia nella più noiosa e monotona staticità sociale. Personalmente non riesco a vedere barlumi di progresso in fondo alla bastevole vita che conducono gli Utopiani. Voglio sia chiaro, però, che non parlo dello stesso progresso incondizionato, sfrenato e figlio del superfluo che ha reso le nostre vite un'accozzaglia d'eccessi; mi riferisco al progresso bianco, candido, quello della medicina e della ricerca, quello basato sul naturale istinto dell'uomo di migliorare le proprie condizioni di vita, quello che mi permette di sfruttare la luce del sole per produrre energia e i cavi ethernet per diffondere le mie idee. La soluzione ultima dei problemi legati alle attuali società non credo risieda nell'inconsapevole cancellazione di ogni male, ma nella cosciente capacità d'ognuno di noi di saper scegliere ciò che è bene, implicando, affinché si realizzi tale principio, l'esistenza stessa di un male.
La contraddizione di fondo è proprio questa. Realmente non è possibile che occorrano le limitazioni delle leggi intese come riduzioni delle libertà per credere di poter, come conseguenza diretta, estendere quelle stesse libertà. In termini semplici sarebbe come tirar fuori acqua da una vasca con l'idea di riempirla. Detto da Benedetto Croce: 

"La libertà si dibatte contro l'autorità, e pur la vuole, e senz'essa non sarebbe; e l'autorità reprime la libertà eppure la tiene viva o la suscita, perché senz'essa non sarebbe [...] Se la parola "libertà" sorride all'animo, quella di "autorità" lo rende serio e severo. Il torto è solo degli esclusivi celebratori della forza o dell'autorità e del consenso o della libertà che dimenticano che il termine da essi escluso è già incluso nell'altro accolto perché suo correlativo."

E allora? Che fare? Aspettare la fine dei giorni? E' una contraddizione di fondo irrisolvibile, o meglio, a mio parere, utopicamente risolvibile con la raggiunta consapevolezza di ognuno di noi di operare per il bene ragionato escludendo il male scellerato. Chiudo ancora con Benedetto Croce:

"Tutte le cognizioni giovano; ma nessuna cognizione mi dirà mai che cosa io debba fare, perché questo è unicamente il segreto dell'esser mio e la scoperta della mia volontà. Sempre che si mette il problema nella forma sovrapersonale e oggettiva: «Che cosa deve fare il mondo? Che cosa deve fare l'Italia?», lo si mette in una forma astrattamente bensì discettabile ma praticamente insolubile, perché che cosa deve fare e farà il mondo, lo sa e saprà esso mondo e non io, che cosa deve fare e farà l'Italia, lo sa e saprà essa Italia e non io. La forma giusta è invece: «Che cosa debbo fare io?»."
mercoledì 4 luglio 2012 9 commenti

Facebook e gli (A)social Network

Due mattine fa, subito dopo essermi svegliato, ho stranamente avuto abbastanza volontà da poter iniziare a pensare prima ancora di lavare via la notte dalla mia faccia. E' una cosa che di rado faccio considerando che ho la stessa vitalità di una pianta grassa e il mio primo obiettivo è quello di svuotare la vescica. 
Mi vergogno un po' a dirlo ma, sempre due mattine fa, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata "social network". Ho ripensato a Facebook, al mio profilo, alle mie notizie, ai miei tag, alle mie foto, alla mia bacheca, ai miei amici e al mio rapporto con il mondo virtuale. Essendo ancora a digiuno sono andato fino in fondo credendo che il mio stomaco potesse rivoltarsi a suo piacimento senza che io rischiassi di rimettere. Qualcosa, però, ho rimesso, ed è stata la mia identità.
Quando mi sono iscritto al Social non credevo che potesse essere così coinvolgente da calpestare la mia riservatezza e la mia discrezione. Voglio dire, non me ne sono nemmeno accorto mentre ogni tag, ogni aggiornamento di stato ed ogni foto riduceva e minacciava la mia privacy. Perché in fondo il rischio è proprio questo. Facebook connette i punti più disparati del globo, connette fra loro vite, sorrisi e pensieri riducendo le distanze fra la gente e le loro sfere personali. Se utilizzato con senno e distacco, limitandosi al mero scambio di idee e notizie, può essere un'arma favolosa contro i silenzi e le falsità di media e giornali. E non posso che riferirmi al ruolo che Facebook stesso ha giocato durante la primavera araba; parlo quindi dell'abbattimento di barriere che, realmente, limitavano la libertà d'espressione di moltissima gente, ma che, virtualmente, crollando, hanno permesso loro di diffondere un urlo di rivolta figlio della raggiunta consapevolezza dei propri diritti. E questa per me si chiama comunicazione, quasi come bisbigliare all'orecchio del compagno di banco la risposta all'ultima domanda del test che gli salva la carriera. Bisbigliare la risposta errata, però, è da un lato viscido, dall'altro (per chi la risposta errata invece la recepisce), è non solo rischioso ma può anche distorcere la propria personalissima visione della realtà. Ecco cos'è stato Facebook per me. Tantissima gente ha bisbigliato soluzioni errate alla mia esperienza virtuale; io le ho recepite, fatte mie e considerate vere. Non bisogna infatti dimenticare che dietro ad un monitor, dietro ad una tastiera e dietro i cavi di rete, esistono persone in carne ed ossa, fatte di abitudini, hobby, ragioni, idee, scellerataggini, passioni, vizi e tanto altro ancora, gli stessi spiriti che danno anima e voce ai propri profili virtuali. Con tutto ciò che ne consegue. Vite quindi da affrontare e filtrare secondo la tanto vecchia quanto buona legge del "non accettare caramelle dagli sconosciuti". Purtroppo per noi iscritti ai Social il vero cruccio, la vera dannazione e il principale responsabile del dissennato scambio d'informazioni è la COMODITA'. Nei Social le vite reali delle genti del globo si intrecciano con una facilità tutt'altro che reale (virtuale appunto), trascinando con sé alle porte dei "perbene" il lerciume e la feccia dei "dannati".
Il senso dell'amicizia si svaluta in una maniera che quotidianamente è a dir poco impossibile immaginare. Hai a disposizione milioni di iscritti, puoi cercarli, e basta un "click" per intrattenere con loro un rapporto basato sul superficiale senso dell'apparire e non dell'essere. E fanno solamente numero, massa e matassa insieme agli altri. Una "richiesta d'amicizia", partita, accettata e stabilita. Realmente è un po' come fermare il primo passante che ci capita di fronte e chiedergli "posso essere tuo amico?". Oddio, sarebbe un mondo felice se le intenzioni dei nostri rapporti fossero sempre le più alte e nobili. Ma non è questa la realtà che viviamo e il virtuale a volte sembra occultarla, in silenzio, senza farsi accorgere. Passare al "lato oscuro" dei Social riesce ancor più facile di quanto non sia stato per Anakin Skywalker allearsi con Darth Sidious. Gli imbarazzi che realmente crea il virtuale, inoltre, non sono percepibili. Ho intrattenuto intere conversazioni tramite web con gente che poi, in carne ed ossa, non ha avuto nemmeno il coraggio di lanciarmi un saluto. Attraverso i Social non ci si guarda in faccia e questo glissa la sincerità che si salda tramite un rapporto nato a quattrocchi. 
Le lame a doppio taglio di Facebook sono poi  così tante e occulte che smussare gli angoli è la prima cosa da fare. Le funzioni ci sono tutte e devo dire che gli amministratori (Zuckerberg, padre di Faccialibro in primis) hanno reso la circumnavigazione dell'etere abbastanza sicura a noi utenti. Cos'ho deciso di fare quindi? Ho bloccato tutto, eliminato tutto, ristabilito la discrezione che sempre è appartenuta alla mia persona reale ma che si stava perdendo nel mio ego virtuale. Ho cancellato, annientato, disintegrato persone che non rispondevano ai canoni naturali e basilari per cui si potessero considerare "miei amici"; l'ho fatto non secondo il COMODO filtro virtuale, ma secondo lo spietato occhio REALE.
Mi sono sorpreso di me stesso. Non mi ero nemmeno reso conto di quanto il mio Social stesse diventando Asocial perché opposto ai miei canoni d'intendere e valutare la società che mi circonda. 
Noto con dispiacere però che, nonostante io abbia imparato a fare mia tale lezione, c'è tantissima altra gente che fora la sfera della propria riservatezza pur d'ottenere il consenso e l'assenso dei propri followers. E questo è il primo passo verso la massificazione delle nullità...


Aggiungo (per quanto riguarda la questione "primavera araba e social network") quest'utilissimo documento: 

venerdì 22 giugno 2012 4 commenti

INFERNO - CANTO XXXVIII

TEMPO: 22 Giugno 2012

LUOGO: Inferno. Girone degli esodati. In partenza dall'Isola del Lavoro, decine (o centinaia?) d'anime vengono accompagnate dal traghettatore Fornero all'ufficio INPS nell'isolotto di fronte. Un fiume di lacrime e sangue divide il loro eterno supplizio dalla redenzione, rendendo ardua la traversata...

COLPA: Mancato raggiungimento dell'età pensionabile.

PENA: Contrappasso per analogia. Come in vita videro la loro pensione allontanarsi per il decreto, in eterno l'ufficio INPS si sposterà lontano da loro, impedendo l'attracco. A lungo saranno quindi costretti a remare attendendo invano la fine della traversata...

Arrivati che fummo nel Lavoro,
isola d'anime ansiose piena,
chiesi timoroso a uno di loro:

«Ch'attendete con tale buona lena?»
rispuosemi così vecchio barbuto:
«Passar a la pension è nostra pena».

Ed ecco verso noi venir un bruto
nocchiero il cui nome fe' Fornero
a caricar anime par venuto.

«Siate lesti, stavolta per davvero,
l'INPS innanzi a voi raggiungeremo!»
e salimmo, con speme nel pensiero.

Con foga Fornero spinse lo remo,
fra lagrime e sangue navigando
un fiume che rimembrar ancor temo.

Ma l'INPS che l'anima va bestemmiando
all'occhi vicina s'inganna lontana,
e l'arrivo nessuno sa dir quando.

Etterno supplizio quella puttana
causò all'anima dell'esodati
con il suo parlare da ciarlatana.

In un limbo poveri pensionati
attesero la fine di quell'anni
che via li portasse, lor sciagurati.

Ma in vita fu fessa a tal danni...
 
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